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Saviano e la retorica del talento




Sabato 30 maggio (una eternità per i tempi dell’informazione nell’epoca di internet) Roberto Saviano in un noto programma televisivo, Amici il talent show di Maria De Filippi, ha raccontato la storia di Michaela DePrince, ballerina della Sierra Leone che dalla miseria è riuscita a diventare un membro della Dutch National Ballet.

Mi è subito venuto in mente che le critiche avanzate a Roberto Saviano quando decise di prendere parte al programma di Maria De Filippi erano del tutto fuori luogo. Questo intervento, infatti, evidenzia come la nota conduttrice e il coraggioso scrittore siano accomunati dall’appartenenza ad un uguale sistema di valori e che, nonostante le dovute differenze, si facciano entrambi portavoce dello stesso messaggio.

Entrambi promuovono il talento e il merito. Ma a cosa servono talento e merito? 


Dietro la storia di Michaela DePrince c’è la stessa identica retorica che sta dietro ai Talent show, al programma della De Filippi, ecc. Le storie che ci vengono raccontate, infatti, sono le storie di gente che “ce l’ha fatta” (o che “vuole farcela”), ma cosa significa “ce l’ha fatta”?

“Avercela fatta” suggerisce il superamento di una difficoltà, il raggiungimento di qualcosa. Inoltre lascia intendere almeno due cose: che “per farcela” devi impegnarti (guai a non provarci); che puoi anche “non farcela”.

“Farcela”, infatti, implica la realizzazione di qualcosa di riconoscibile e soprattutto di riconosciuto. Non è la danza che rende felici ma il riuscire a diventare danzatrice, ovvero acquisire uno status, seppure tramite il riconoscimento di un merito. Stessa logica che troviamo in altri ambiti della “cultura” o dell’istruzione. Con le dovute eccezioni, si può affermare che l’aspirazione al raggiungimento di un obiettivo (che quasi sempre prevede un percorso verticale, il raggiungimento di una vetta) riguarda non più l’acquisizione di una competenza “artigianale” (oggettivamente riconoscibile) ma di uno status (socialmente riconosciuto).

Prendendo a prestito le parole di Zygmunt Bauman potremmo dire che, contrariamente al passato, oggi gli uomini hanno lo status di individui de jure ma non quello di individui de facto. In pratica dobbiamo guadagnarci quello status che prima avevamo per natura. Tuttavia “esiste un ampio e crescente divario tra condizione degli individui de jure e la loro concreta possibilità di diventare individui de facto, vale a dire di diventare padroni del proprio destino”. Ovvero è prevedibile e previsto che non tutti “possono farcela”, anche indipendentemente dal “valore oggettivo” e dalle competenze dell’individuo in questione.

La storia raccontata da Saviano, in questo contesto, è esemplare. Saviano (ma in generale la narrazione inscenata dai media), in un certo senso ci dice che (le parole sono sempre di Bauman) “essere individui de jure significa non poter addossare a nessuno la colpa per la propria miseria […] significa non poter cercare altri rimedi che il darsi da fare con sempre maggiore vigore”. Ma è una menzogna. La speranza di “farcela” legata all’imperativo “devi provarci” diventa una forma assai più subdola e potente di coercizione.

Chi ce l’ha fa, dicono, è perché ha talento. Perché se lo è meritato (dunque chi non ce la fa, non si è meritato di farcela; colpa sua!): la meritocrazia!

Ora”, scrive Richard Sennet, “il talento era il criterio di misura di un nuovo tipo di diseguaglianza sociale: creativo o intelligente significava superiore agli altri. Chi possedeva queste qualità era una persona di grande valore”. Tuttavia, una volta burocratizzata, la meritocrazia non serve solo a scoprire e premiare il talento ma soprattutto a “oggettivare il fallimento”.

Chi è privo di talento diventa invisibile, esce dal campo visivo”, scrive Sennett; diventa una “vita di scarto” come suggerisce ancora Bauman.

Il problema è, dice Ulrich Beck, che “adesso ci si aspetta che gli individui trovino soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”, ma in questo sistema non è previsto che tutti possano diventare “padroni del proprio destino”. In questo senso i talent show (la cui retorica è applicata in ogni ambito della società postmoderna) sono il luogo ideale di una nuova educazione sentimentale in cui si deve imparare soprattutto che non tutti potranno farcela ma che se “non ce la fai” non è colpa di un sistema che lo ha previsto, ma colpa della tua mancanza di merito, di talento; significa che non hai lottato abbastanza, che non ci hai provato con tutte le tue forze, che non sei stato abbastanza “cattivo”, infatti al posto tuo ce l’ha fatto qualcun altro.

Impegnati, provaci, sforzati, ritenta… Le nuove forme di schiavitù hanno sostituito la coercizione con forme volontarie di auto-asservimento in cui siamo noi stessi i nostri controllori. E nessun tiranno è peggiore di noi stessi!

Chissà se Saviano a tutto questo ci ha pensato. Chissà se ha scelto di aderire e promuovere questo modello o, semplicemente non ci ha fatto caso.

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