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Les poèmes d'un Maudit - Mario Scalesi


Incidentalmente, navigando nel catalogo della biblioteca del mio paese, mi sono imbattutto nella raccolta di poesie di Mario Scalesi.
Il bel volume, in simil dodicesimo, edito nel 1997 da ISSPE editore, presenta l'unica raccolta di Mario Scalesi, Les poèmes d'un Maudit, accompagnata da diversi contributi critici.
Confesso che, io, Scalesi non lo avevo mai sentito nominare e, del resto, se si esclude Salvatore Mugno, curatore della raccolta, credo che in Italia di Scalesi si siano occupati in pochi. Ancora oggi, infatti, parte della sua memoria si deve a Gaspare D'aguanno che nel 1938 pubblicò, in francese, una biografia di Scalesi.
La vera fortura critica, e non solo, però, Scalesi l'ha ottenuta in Tunisia, dove ancora oggi viene considerato uno dei padri della letteratura nordafricana in lingua francese.
Mario Scalisi [sic], era questo il suo vero cognome, era nato a Tunisi, al tempo in cui le rotte della disperazione avevano verso inverso rispetto a quello odierno. Il padre, di origini trapanesi, era un sottoufficiale della Marina italiana che aveva dovuto emigrare clandestinamente a Tunisi a seguito di una controversia con un agente di polizia. La madre, invece, era nata a Tunisi ma era figlia di un genovese e di una maltese.
Quella Scalisi era una famiglia poverissima, una famiglia di immigrati italiani che insieme a quelli maltesi accrescevano il sottoproletariato tunisino, fortemente italianizzato, e che solo la mirata politica coloniale francese riuscì a francesizzare, quantomeno nelle sedi ufficiali, ad esempio promuovendo le scuole francesi ed esautornado quelle italiane.
Tuttavia non sarà solo la miseria a fare di Scalesi un poeta maudit. Vi contribuì fortemente non solo la nascita tubercolitica, ma anche una caduta che al suo quinto anno di età lo storpio irreparabilmente.
Mario Scalesi andò incontro ad un progressivo deterioramento fisico e mentale che lo portò verso la pazzia. Una meningite lo costrinze al ricovero presso l'ospedale Garibaldi di Tunisi e al successivo internamento nel manicomio Vignicella di Palermo dove morirà nel 1922 e il suo corpo gettato in una fossa comune del cimitero cittadino.
Destino che ricorda da vicino quello di un'altro maudit della nostra letteratura d'inizio novecento, Emanuele Carnevali, con il quale condivide la condizione d'emigrante, l'alterazione mentale, l'utilizzo di una lingua che non è quella italiana... e anche la dimenticanza, o lo scarso interesse, che quantomeno in Italia, hanno suscitato i loro versi.

La spalla

L'assolata primavera risplendeva sulle vetrate.
Dimentico del Dare, dell'Avere, delle scartoffie e dell'ufficio,
sentivo invadermi di luce,
respiravo l'azzuro, fintanto che ti avevo accanto.
La mia adorazione non aveva parole,
vedevo fiorire il raso delle corolle, 
e passeri con allegria, desertando qualche muro,
con profumi leggeri si libravano nel cielo terso.
Il fogliame si abbeverava ai baci della brezza.
Ma questo male antico che lentamente mi consuma
e fa del mio corpo di bambino un corpo di vecchio
ha vibrato nella mie ossa un colpo di stiletto.
Allora - istintivo gesto del ferito che vacilla - 
la mia mano si è poggiata alla tua spalla di fratello.
E tu te ne sei andato.
                               Tu gridavi. A me sembrava
che le rose morissero, che il cielo si oscurasse.
E capì, improvvisamente, che fossi tu, la Vita,
implorata dall'anima mia e inseguita tanto a lungo,
fin dal primo mio sogno e dai primi miei istanti;
la divinità gioiosa, in abiti di primavera,
dallo sguardo di luce e dalla voce che carezza,
la Vita, insomma, la Vita, incantatrice ardente
il cui sorriso inebria come una pozione
e che sempre mi sfugge quando la vorrei afferrare.

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