È
impossibile, per me, parlarvi di Genet con la stessa predisposizione
con la quale solitamente parlo di qualsiasi altro autore.
La
sua grandezza mi impedisce di guardarlo per intero, se non a tali
altezze che (per limite mio) non mi è possibile eguagliare. Sartre
[Sartre!] per farlo ha dovuto scrivere un'opera (qui uso la parola
opera così come la si usa per parlare di una cattedrale)
monumentale. Se si pensa alle poco più di cento pagine da lui
dedicate a Baudelaire, le oltre seicento dedicate a Genet diventano
l'emblema di una grandezza che l'opera (e la vita) di Genet non solo
incarnano ma addirittura ispirano. Si pensi, ad esempio, a quella
vetta cinematografica che è Querelle
de Brest di Rainer
Werner Fassbinder.
La
prima cosa che è necessario comprendere di Jean Genet è la sua
sincerità. Dice di essere, ed effettivamente è, un bugiardo. Del
resto sarebbe una bella presunzione, per un uomo, pretendere di
essere sincero e di dire la verità. Se non si riesce a comprendere
questa premessa difficilmente si potrà amarlo, perché amare (l'ho
già detto altre volte) vuol dire comprendere.
Sulla propria opera Genet
stesso non manca, in fieri, di intervenire con riflessioni e
confessioni varie. Una di queste confessioni (ma c'è da fidarsi?) è
incastonata (perché è un gioiello di lucidità) tra le pagine di
Journal du Voleur:
“Dall'impotenza dei mezzi, dalla magnificenza dei materiali messi in opera per avvicinarsi agli uomini, misuro sino a che punto il poeta fosse lontano da loro. La profondità della mia abiezione lo ha costretto a questo lavoro da ergastolano. Ora, la mia abiezione consisteva nella mia disperazione. E la disperazione era la forza stessa – e a un tempo la materia – per abolirla. Ma se la più bella è l'opera d'arte che esige il vigore della maggior disperazione, bisognava che il poeta amasse gli uomini per poter intraprendere uno sforzo simile. E ci riuscisse. È giusto che gli uomini s'allontanino da un'opera profonda se essa è il grido d'un uomo mostruosamente impantanato in se stesso.
Dall'imponenza dei mezzi che esigo per scostarvi da me, misurare l'affetto che ho per voi. Giudicate sino a che punto vi ami da queste barricate che alzo nella mia vita e nella mia opera (l'opera d'arte non dovendo essere altro che la prova della mia santità, importa che tale santità sia reale non soltanto per fecondare l'opera stessa, ma anche perché, su un'opera già forte della santità, m'appoggi per uno sforzo maggiore verso una destinazione ignota) affinché il vostro fiato (sono estremamente corruttibile) non possa guastarmi. Il mio affetto è d'una pasta frale. E l'alito degli uomini turberebbe i metodi di ricerca d'un nuovo paradiso. Del male, imporrò la visione candida, dovess'io, in tale ricerca, lasciar la pelle, l'onore, la gloria.”
La
difficoltà di chi si appresta a parlare di Genet, capite bene, non
consiste nella difficoltà di comprenderlo quanto in quella di
spiegarlo. Poiché spiegare Genet significa spiegare
propedeuticamente il modo in cui ha reinterpretato il mondo.
Significa dover spiegare (perché nuovo) ogni legame tra azioni e
reazioni e soprattutto tra le azioni e i motivi che le hanno
generate. Significa applicare alla realtà (tutta) non solo un nuovo
punto di vista ma addirittura un senso nuovo con la quale percepirla.
Genet
stesso scrive:
“Chiamo santità non una condizione, ma la condotta morale che mi porta ad essa.”
Dunque, se il fine della sua poesia è la santità e la santità
coincide con la condotta morale, è necessario stabilire di quale
morale parla Genet ed applicarla alla realtà.
In
realtà si tratta di una morale “altra” da qualunque morale con
la quale si era fino ad allora, e anche in seguito, interpretato il
mondo.
Non
posso, io, per complessità e per l'inadeguatezza con la quale
interpreterei questo ruolo, descrivere la morale che esprime il
vangelo di Genet ma posso, e mi limito a questo, coglierne alcuni
aspetti.
In
quella che è una delle sue prime poesie, Le condammé a
mort, scritta nel carcere di
Fresnes nel 1942, Genet sente il bisogno di accompagnare la lirica
con una chiusa nella quale per la prima volta ci introduce in quel
nuovo che è non solo
il suo sguardo sul mondo ma anche la maniera in cui ci vive dentro.
Genet spiega che questi versi sono stati dedicati a Maurice Pilorge,
condannato alla ghigliottina per l'omicidio a scopo di rapina del
messicano Escudero. Lo stesso Pilorge a cui poi verrà dedicato anche
Notre-Dame des-Fleurs
(primo romanzo di Genet).
In
questa chiusa Genet scrive:
“Commentando l'atteggiamento di Maurice di fronte alla morte, il giornale l'Oeuvre disse: “questo ragazzo sarebbe stato degno di un altro destino”.
In breve, lo sminuì. Io, che l'ho conosciuto e amato, voglio qui, il più dolcemente possibile, teneramente, affermare che, per il doppio e unico splendore della sua anima e del suo corpo, fu degno di avere il beneficio di tale morte.”
Già
dal suo apparire, il mondo di Genet era compiuto. Si mostrava come un
mondo diverso dalla consueta interpretazione che il mondo stesso
aveva dalle proprie regole.
In
Notre-Dame del-Fleurs
Genet precisa:
“Credo nel mondo delle prigioni, nelle sue turpi abitudini. Accetto di viverci come accetterei, morto, di vivere in un cimitero, a patto di viverci da autentico morto. […] Non già essere vanitosi e ornarsi di ornamenti nuovi, diversi da una cravatta e da un paio di guanti: ma rinunciare alla vanità. Non voler essere belli: volere qualcos'altro. Usare un altro linguaggio. E credersi davvero imprigionati per l'eternità. È questo “farsi una vita”: rinunciare alle domeniche, alle feste, al tempo che fa.”
La
premessa di questo mondo va cercata in un atteggiamento di Genet che
(per estrema gentilezza) diventa ladro “perché –
ci dice – gli altri mi credevano ladro”.
Lo stesso atteggiamento per cui in Notre-Dame des-Fleurs
scrive:
“Proclamandosi da se vecchia puttana e puttaniera, Divine, non faceva altro che prevenire le canzonature e le ingiurie”
O
come scrive, ancora più chiaramente, in Journal du Voleur:
“Il meccanismo era pressappoco questo (da allora lo utilizzerò sempre): a ogni accusa fattami, anche se ingiusta avrei risposto con un si dal profondo del cuore. Appena pronunciata quella parola – o la frase d'ugual significato – sentivo dentro di me il bisogno di diventare ciò che mi avevano accusato di essere. […] nel mio cuore non lasciavo nessun posto dove potesse trovare trovare asilo il sentimento della mia innocenza.”
Genet
sembre volerci dire che la nostra natura che pure è innata bisogna purtuttavia sceglierla, bisogna aderirvi, ma
nonostante ciò si rimane impossibilitati nell'azione: “Invece
di sapere che agiamo, ci sappiamo agiti”.
Più avanti sempre in Notre-Dame des-Flores
scrive:
“Sappiamo che Notre-Dame non si scusava mai, sembrava non che tutto gli fosse dovuto, ma che tutto dovesse accadere”
Come
già detto in precedenza, dunque, la santità non è nelle azioni,
che sono la conseguenza sociale, ma nelle motivazioni che sono la
riflessione intima che le hanno generate. Solo così si può
comprendere la sua santità.
In
un articolo apparso su “Aujourd'hui”
del 5 dicembre 1940, Genet racconta di quando rubava dalle bancarelle
e dagli scaffali delle librerie quei libri che servirono al suo
nutrimento spirituale e scrive:
“All'inizio, rivendevo i libri dopo averne sorbito l'essenza, ma presto provai un amaro pentimento.
Per questo dopo aver visionato i volumi che sono tristemente costretto a prendere in prestito, li lascio discretamente negli scaffali e nelle bancarelle. Mi allontano in punta di piedi, il cuore riscaldato per aver fatto in incognito una buona azione”.
Quella
stessa santità che descrive in Notre-Dame
quando scrive:
“Divine è umile. Non come quel gesuita di cui dicevano: è un uomo che vive con tanta semplicità! Per esempio, durante la guerra, in qualità di ufficiale superiore, aveva stabilito il suo posto di comando in un castello e il suo ufficio nel salone. Ebbene, rifiutò di usare un bel mobile intarsiato e lo fece sostituire con un tavolo da cucina di legno bianco. Ufficialessa, Divine non avrebbe neppure visto la differenza tra i due tavoli.”
Ritiene
volgare e inutile, invece, quella santità che viene riconosciuta in
gesti come quello di Vincenzo De'Paoli che si sostituì ad un
condannato subendone al suo posto la pena capitale. Genet scrive:
“Della santità di Vincenzo De'Paoli diffido. Dovevo accettare di commettere il delitto al posto del galeotto di cui prese il posto ai ferri.”
Come
a dire che doveva compromettersi nell'anima piuttosto che limitarsi a
subire le conseguenze di un male che non aveva compiuto.
La
morale di Genet, dunque, si manifesta in cose minute, in sfumature
intime, in gesti impercettibili. Si manifesta in quella “gentilezza
verso la materia” con cui fa
coincidere il talento, in quel “dare un canto a ciò che
è muto” nel quale consiste
buona parte del suo slancio lirico.
Questo
amore è molto presente in Journal du voleur dove
Genet sente come primario l'amore verso la materia: “sentivo
tutto l'amore che deve provar la materia verso chi la foggia con
tanta gioia”. E più avanti
scrive:
“Gli oggetti potevano affezionarglisi, giacché non li disprezzava”
Bisogna,
però, sottolineare che lo sguardo di Genet non è analitico bensì
sintetico: “degli oggetti distingueva l'essenza, non la
qualità”. Ed è con questo
sguardo che Genet supera l'apparenza di un mondo che fino ad allora
solo in base a questa era stato descritto e lo rigira come un guanto,
lo rovescia, lo investe di una realtà nuova come nuovo è non solo
lo sguardo ma addirittura il senso con cui lo percepisce.
Il
mondo di Genet è quello in cui è per il valore che assumono in loro
stessi, e non per lo scandalo che produce la loro rappresentazione,
che alcuni gesti assumono il valore di rito e quindi il sacrore e la
trascendenza proprie del rito. Riti, come l'arresto di Divine,
davanti ai quali “i borghesi si accalcano e non vedono
niente, non sanno niente...”.
O con la magnifica processione verso “un vespasiano
distrutto”, con cui le
“checche” di
Barcellona, onorarono, portandogli dei fiori “la lamiera
arrugginita e puzzolente del pisciatoio abbattuto”.
A questa descrizione (o sarebbe meglio dire apparizione lirica) Genet
fa seguire un commento che trascende il singolo episodio, la singola
opera di cui fa parte, e forse rappresenta una chiave di lettura per
capire Genet e le motivazioni della sua scrittura:
“Sapevo che il mio posto era in mezzo a loro, non perché fossi una di loro, ma perché le loro voci stridendo, i loro gridi, i loro gesti smaccati non avevano altro scopo, mi sembrava, che quello di sfondare la cortina di disprezzo del mondo.”
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