È con un certo imbarazzo
che mi appresto a parlare di Pierre Reverdy. Imbarazzo dovuto al poco
valore che gli è stato riconosciuto dopo la morte e all'inadeguata
diffusione data alle sue opere dall’editoria italiana, delle quali
non mi risultano edizioni recenti, se si escludono un’edizione
della Guanda datata 1968, una della Einaudi del 1972 e una della Ares
datata 1993; tutte parziali e tutte fuori catalogo ovviamente.
Eppure ancora nel 1928
Breton, Soupault e Aragon riconoscevano in Pierre Reverdy “il più
grande poeta attualmente vivente”. Oggi, persino in Francia, dove
l’attenzione editoriale nei suoi confronti è di molto superiore a
quella riservatagli in Italia, i resoconti scolastici gli
attribuiscono un piccolo spazio tra quegli autori che vengono
definiti “ai margini del surrealismo”. Parliamo di autori come
Max Jacob, Cocteau, Superville e lo stesso Reverdy appunto. Il suo
problema, come degli altri, forse è quello di non appartenere a
nessuna corrente, di portare avanti un discorso originale ed inedito
per certi versi.
Non ricordo più il
motivo ma, alcuni anni fa, conobbi il nome di Reverdy ed andai alla
ricerca delle sue opere. Del resto riuscì a reperire una sola delle
edizioni italiane che ho sopra citato, quella di Le voleur de
Talan della Einaudi; solo
in un secondo momento riuscì ad avere, in fotocopia, La lucarne
ovale, raccolta di poesie tratta
da Plupart de temps, poèmes (1915-1922),
e Cette émotion appelée poésie, tratta da una omonima raccolta, Cette émotion appelée poésie, ecrits sur la
poésie (1932-1960) di scritti sulla poesia di Reverdy, entrambi
in edizione Flammarion.
Mi piacque subito
Reverdy. Con una certa dose di presunzione oso dire che lo capì
immediatamente. E capì del resto il motivo per cui non ci fossero
edizioni italiane e perché si tendesse a dimenticarlo.
Tristan Tzara nel 1961,
pochi mesi dopo la morte di Reverdy, scrisse: “Sarà una delle
vergogne del nostro tempo il non aver saputo mettere Pierre Reverdy
al posto che gli spetta e che è certamente tra i più elevati”.
Ce ne chiarisce il motivo
anche Gil Pressnitzer quando scrive: “… viene decretato troppo
monotono. Certamente egli ha scritto centinaia di poesie ma, direte
voi, non fa che ripetersi, come il povero Vivaldi nei suoi concerti.
Ma questo è un non voler comprendere i movimenti impercettibili
dell’infinito”.
Quella di Reverdy infatti
è una poesia dal movimento impercettibile, una poesia del grande
freddo, una poesia del silenzio. Tutto sembra sospeso, in attesa. Ad
ogni verso si ha l’impressione che stia per accadere qualcosa di
grave, lo sentiamo, ma non sappiamo cosa.
In una lettera
indirizzata a Rousselot, del 16 maggio 1951, Reverdy scriveva:
“L’aventurier est celui qui invente ses aventures”. Ed è in
questo mondo chiuso ed apertissimo dell’inventarsi la propria
avventura che Reverdy si è fatto poeta-avventuriero. Un mondo
immateriale, fatto di solo spirito. Un mondo che non si può ricevere
passivamente ma di cui deve essere il lettore stesso ad andare alla
ricerca. Il movimento, sempre che movimento debba esserci, non è
nella poesia ma è, deve essere, nel lettore. Ed è forse questo
sforzo richiesto al lettore che, sempre più abituato ad essere
spettatore passivo, ha fatto dimenticare Reverdy, quantomeno dal
grande pubblico.
Sempre nella
corrispondenza con Rousselot il poeta ci fornisce però qualche
chiave di lettura a questo suo mondo poetico: “il terrore della
realtà non ha mai finito di pesare sul mio destino. Credo di non
aver mai visto, nelle mie poesie, la terra stabile sotto i miei
piedi; la terra frana, la sento franare, sprofondare, e crollare in
me.[…] Non credo di essere un poeta, né uno scrittore, né un
artista. Bensì un uomo che non ha altro modo di mantenere il
contatto con la vita, di restare a galla. Io scrivo così come ci si
aggrappa ad una boa”.
Del resto gran parte
dell’attività letteraria di Reverdy è dedicata a capire e
spiegare i meccanismi della poesia e dell’emozione poetica.
Questo breve resoconto su
Reverdy infatti vuole essere un’introduzione al già citato Cette
émotion appelée poésie. Non credo esistano delle traduzioni
italiane di questo saggio, perlomeno io non sono riuscito a trovarne,
ragion per cui dopo averlo letto mi sono premurato di tradurlo e di
rendere disponibile questa mia traduzione.
Visto che le circa dieci
pagine di traduzione poco si prestano alla brevità richiesta ai post
di un blog, pubblico il link alla versione in pdf, liberamente
consultabile e scaricabile su Scribd.
Per chi non avrà voglia
di leggere l’intero documento mi limito a dire due parole, utili
anche a chi vorrà concedersi il piacere della lettura.
Già il titolo
Quest’emozione chiamata poesia lascia intuire l’argomento
ma l’argomentazione potrebbe risultare sorprendente.
Reverdy vuole affermare
l’esigenza della scrittura da parte del poeta, inteso come colui
che ha per scopo quello di creare un'opera estetica in grado di
trasmettere un’emozione che le cose della natura non sono in grado
di suscitare nell’uomo. Reverdy ribalta il rapporto tra arte e
natura quando dice: “in verità se noi ammiriamo così tanto la
natura è perché noi ci ritroviamo quello che l’arte, dopo che è
stata portata nel mondo dagli uomini, ci ha insegnato ad ammirare”.
L’arte non imita la natura bensì la corregge. Infatti, così come
la luce non è nella corrente elettrica ma nella scintilla che nasce
dallo choc elettrico dei due poli contenuti nella lampadina, così
(dice Reverdy) la poesia non è nella natura ma nell’uomo, “questo
temerario accumulatore di emozioni violente”. Infatti se così non
fosse all’uomo basterebbe lo spettacolo della natura, mentre invece
si reca a teatro, va a vedere le mostre, legge i libri; perché lo
farebbe se queste cose suscitassero in lui le stesse emozioni che già
gli provoca la natura?
Il poeta scrive
innanzitutto per svelarsi a se stesso, ma essendo che anche le cose
che l’uomo crede più intime e particolari in se stesso sono molto
frequentemente assai comuni a tutti gli uomini, sarà il modo in cui
sono dette a caratterizzarle. Infatti lo choc poetico è la
rivelazione di qualcosa che noi portiamo ignari in noi stessi e per
la quale ci mancano le parole per riuscire ad esprimerla. Ed è
quello che fa il poeta. Inoltre, parlando delle sue miserie, il poeta
ci libera delle nostre: “grazie a loro questo peso terribile da cui
siete oppressi lascia il posto all’inebriante leggerezza del volo”.
Dunque il compito del
poeta è quello di trovare quanto di più unico e degno di nota abbia
in se stesso e di esprimerlo in una maniera il più semplice
possibile tale che ogni uomo ci si riconosca: ed è questo che
Reverdy chiama choc poetico, quell'emozione che chiamiamo poesia.
Complimenti Techieroverde, bellissimo post.
RispondiEliminaOra mi leggo la tua traduzione, sono curiosa!
Giusy
Ciao Giusy,
RispondiEliminagrazie dei complimenti... spero ti piaccia. Ad ogni modo di Reverdy parlerò anche in seguito.