Le poesie di Mandel'stam le lessi, con quella fretta tipica degli amori adolescenti, perlopiù sprofondato nelle poltroncine del treno che ogni giorno, alcuni anni fa, mi portava dalla stanza che allora abitavo ai locali della biblioteca in cui ai tempi facevo il volontario; luoghi distanti tra di loro una settantina di chilometri. Era primavera se non mi sbaglio ed io ero preso da quella febbre russa che mi aveva subdolamente iniettato in corpo il faccino d'angelo di Esenin (Dato che sono un poeta, come un poeta bacio... diceva, e c'era da crederlo).
Di Mandel'stam mi è
sempre piaciuta quella sorta di sfida che lancia (a chi?) di continuo
ad ogni suo verso. Una sorta di terrore continuo di cedere, anche
solo di un passo, terreno al compromesso. Lui che, mi tocca fidarmi
di resoconti e traduttori non sapendo decifrare i caratteri
cirillici, ha fatto proprio l'assunto musicale di Verlaine e che
compone versi perfettamente inquadrati nella gabbia metrica che di
volta in volta ritiene più opportuna. Eppure liberissimi.
In una sua lettera di
quand'era praticamente un ragazzino scriveva: “Non ho alcun
preciso sentimento nei riguardi della società, di Dio e dell'uomo –
però con tanta maggiore forza amo la vita, la fede e l'amore.”
Nel 1923, in seguito alle
sue dimissioni dall'Unione degli scrittori, inizia il suo progressivo
isolamento da parte del regime. Le campagne montate contro di lui
lo porteranno ad una sorta di esilio forzato in patria ma
non per questo rinunciò alla sua missione di poeta e di uomo libero.
Opere come La quarta prosa, scritta nel 1929, o Conversazione
su Dante del 1933, in Russia verranno pubblicate soltanto diversi decenni
dopo, addirittura nel 1967 e nel 1988. Nonostante i processi e le
condanne Mandel'stam fu sempre fedele al suo credo, scrivendo versi
di chiara critica al regime e addirittura contro Stalin stesso. In
una delle sue liriche Stalin è definito “il montanaro del
cremlino” con “occhiacci da blatta”, e più avanti: “i
servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio, chi zirla, chi
miagola, chi fa il piagnucolone; lui, lui solo mazzapicchia e
rifila spintoni”.
Venne condannato infine,
dopo le innumerevoli altre volte, con l'imputazione di attività
antirivoluzionaria e “in quanto malato di mente passibile di
incriminazione”. Fu deportato nei lager di Kolymà ma non vi giunse
mai, morì prima, vicino a Vladivostok in un campo di transito dopo
mesi di viaggio verso la Siberia.
In una serata letteraria
a Mosca, quando già era malvisto dal regime, nel 1932, Mandel'stam
lesse “come uno sciamano (così
dice il resoconto di Nikolaj Chardziev che ne scrive in una lettera)
tutte le sue poesie degli ultimi anni. Molti si sono spaventati. Si è
spaventato anche Pasternak, che ha proferito: Invidio la vostra
libertà...”
Una libertà che
spaventa, quella di Mandel'stam, e una poesia di rara potenza verbale
e plastica. Poesia lirica e poesia civile insieme come raramente
accade e non per nulla in certi versi ci riconosco il primo Pasolini,
anche lui innamorato di Dante, così come il poeta russo, forse
proprio per l'aver saputo cantare insieme la libertà (non c'è
libertà senza intelligenza, ragione, conoscenza) e la bellezza.
Appendice
#
Per qualche tempo ancora
proverò meraviglia
del mondo, dei bambini,
della neve,
ma come una strada è
aperto il mio sorriso
né docile né servo...
9-13 dicembre 1936
Tratta da: Osip Mandel'stam,
Ottanta poesie, a cura di Remo Faccani, Torino, Einaudi, 2009
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